Quei mariti da rifare

 La stanza era tutta per sè. Non aveva le pareti dipinte di bianco ma di un verde menta che sfidava ogni convinzione estetica.  "Cosa dice signora, insegniamo a suo marito come si fa a gestire una stomia? Magari potrà darle una mano!", le dissi con voce generosa.

La stomia è una derivazione esterna di un organo cavo, come l'intestino nel caso della signora, sul quale bisogna attaccare un sacchetto adesivo di raccolta delle feci, cambiarlo quando è sporco o svuotarlo. E' un ano artificiale insomma, cucito sull'addome e spesso sporgente come una piccola ciliegia.
La signora mi guardava come se fossi un extraterrestre, come se avessi detto una enorme scempiaggine, la più grande sciocchezza. 
Non avrebbe mai mostrato la stomia ad un marito che non aveva cambiato nemmeno un pannolino ai suoi quattro figli. Lui le mani le aveva sempre e solo sporche di terra. Lei lo aveva perennemente visto lavorare i suoi campi al mattino, recarsi al consorzio per le sementi il pomeriggio e tornare alle sette in punto per sedersi a tavola a mangiare. Punto. Il resto non era affar suo. 
No, non se lo vedeva proprio nei panni dell'operatore sanitario.
In compenso era davvero un ottimo agricoltore. Di sacchi di grano ne produceva di qualità. Dal grano biologico a quelle coltivazioni sperimentali che hanno un nome tutto loro. Dai grani antichi a quelli macinati con la pietra. Storie che si raccontano e si tramandano da quando esiste la parola. Ma a me interessava che tipo di marito fosse con lei.
Mi raccontava dettagli imperscrutabili. Non era facile capire quell'uomo. La signora Lena (nome di fantasia), casalinga per poter accudire i figli venuti al mondo ogni nove lune, diceva che  l'uomo che aveva sposato, non le avrebbe mai portato un bicchiere d'acqua nè in salute nè in malattia. Nemmeno ora che si trovava con il cancro in corpo. Ed era un retrogusto metallico quello che dava la nota al dolore delle sue parole.
Inevitabilmente ho pensato ad altre situazioni simili che ho visto e alla stessa identica rassegnazione e tristezza, impressa come la cipria, sul volto delle mie pazienti. Mi chiedo spesso perchè io debba sempre pensare di cambiare il mondo, di far stare bene le donne che stanno male, di rifare quei mariti dall'indole autoritaria e patriarcale che pensano sia solo un titolo l'essere marito e non un importante impegno.  
Il mio pensiero libertario non  nasce da sterili teorie imparate sui libri, rifugi segreti della mia solitudine creativa, mi appartiene fisicamente, e mi è necessario come l'aria che respiro. Per questo vorrei chiedere a qualcuno la cura per ogni cosa. Si dice che sia l'acqua salata. Sudore, lacrime o il mare. Anche per me, che trasformerei i rovesci in nuovi capitoli del destino di ogni donna malata. Dove le lacrime possono travolgere, ma anche far riscoprire una grande forza, e il mare inghiottire, portare alla deriva, o verso nuove mete, nella fabbrica di mariti, dell'isola che non c'è. 

L'articolo è stato pubblicato sul quotidiano Oggi Treviso 





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