La pienezza del silenzio

Non ero mai stata in questo posto.

Ci sono passata davanti cento, mille, duemila volte forse, ma mai fermata.

Anche stamattina l'ho visto dal finestrino. Si stagliava là, immobile, imponente, tra le nuvole. Ci sarei tornata nel tardo pomeriggio, dopo lavoro.

Sono stata immobile a fissare le altissime colonne e quelle nuvole di panna che sembravano montate apposta, per farne risaltare la bellezza. Qualcuna era più rada, dissecata dal vento, ma nitida sotto il cielo. C'era un silenzio assurdo, pieno, a tratti assordante. Un silenzio di quelli che ti fanno guardare dentro e sobbalzare dal rumore di mille pensieri che vorresti mettere in una centrifuga, farli a pezzettini per vederli svolazzare come mulinelli impazziti, tutt'intorno alla cupola.
Quando sono arrivata, sono scesa guardinga sui ciottoli scabri. Nella casa di fronte, un uomo cercava di tenere il cane accucciato, spiava da sopra la siepe. Accanto, in una vecchia casa rossa con i mattoni sbrecciati, un tipo tarchiato, basso, sciacquava damigiane masticando la cicca. Poi non c'era più nessuno.
Il Santuario dellla Madonna del Caravaggio si trova a dieci chilometri da Castelfranco, piccola perla del Veneto, ed è stato costruito nel 1829 quale atto di devozione, in seguito ad un lungo periodo nero, di tristezza, miseria, distruzione.
Non se ne dolga il visitatore ignaro dell'architettura palladiana, della non conoscenza delle caratteristiche strutturali e tecniche, di capitelli, logge o frontoni, del pronào o colonnati, ma si fermi immobile ad osservare e ad ascoltare quella pienezza del silenzio in cui campeggia questa meraviglia.
Ho trovato in me la velleità, quasi la smania di essere costretta a questa fuga da casa, per visitare questo posto.
Prima, passando davanti a un santuario, non pensavo che a zitelle e a vecchi calvi inginocchiati, a fastidiosi borbottii. Oggi però mi sono ricreduta. Una chiesa, un santuario, un convento, sono invece rifugi dove si ascolta con i palmi delle mani sul viso calmarsi il battito del cuore.
Sono entrata, mi sono soffermata presso la porta, appoggiando poi la schiena alla fredda parete. Ho puntato gli occhi a terra fissando il pavimento fino a raggiungere il lumicino rosso in fondo alla navata, sollevando le palpebre. Ho avuto solo una unica certezza, una pace improvvisa.
Non ho parlato con nessuno di quell'attimo, ma ho voluto descrivere subito stasera quello sgorgo di gioia.
Perchè forse siamo tutti un po' malati di qualcosa che non va e tutti vorremmo guarire.
Quello è il posto giusto per continuare la cura.
Ho lasciato Fanzolo, palpitante e felice, e al tramonto, col sole negli occhi, sulla via asfaltata, umida d'autunno alle porte, ho pensato alle bellezze della nostra terra. Ancora un diamante dal potere terapeutico.

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