Back to the nature

Anche il sociologo posta sui social le sue lasagne. Mentre le mangia, non mentre le fa.
Mostriamo tutti un'altra faccia. L'altra faccia di noi, ai tempi del coronavirus.
Cenni di vita nostra, intimi e personali, o ricordi da condividere, ci fanno sentire meno soli, tutto qua. Come oggi, che ho voluto postare me, di fronte ad un trattore messo là di traverso per caso, nel mio campetto. Quasi mi ricordasse minaccioso che se gli uomini non porteranno rispetto alla natura, la natura si ribellerà di nuovo.
Torneremo ad amare la natura, giuriamolo. A riempire i balconi di piante e a curare i giardini, a piantare alberi, a coltivare gli orti e i campi, delle nostre amate campagne. Apprezzeremo le patate, la polenta e il frumento d'estate, quando vedremo ondeggiare le spighe su campi, ripercorrendo il tempo in cui, chiusi in casa, acquistavamo pacchi di farina che finivano presto al supermercato, per fare dolci e pane. Penseremo due volte prima di estirpare un'erbaccia, che anche quella potrebbe servire dov'è. 
In questo piccolo pezzo di terreno ho costruito pezzi di cuore. I  peschi in fiore replicano il loro eterno spettacolo di improvvisa bellezza come ogni anno. La primavera non si è fermata. solo noi abbiamo dovuto fermarci.

Non sapevo bene dove il passo tenesse o fosse già pantano. Provavo, piano, ad affondare il piede. E' stato quell'odore di erba tagliata e letame, di terra umida e legno muschiato, di foglie secche  nel polverone che immaginavo trascinato dal trattore, ad avermi restituito la bellezza del posto in cui vivo. 
Nella frenesia del lavoro, in un andirivieni ospedaliero, ai tempi del coronavirus lo avevo dimenticato. 
L'ho calpestato stamattina quel campo. Lo indossavo quasi come una camicia fino a ieri troppo larga, appesa nell'armadio e dimenticata, ed ora perfetta. E mentre i fili d'erba mi solleticavano le caviglie, lo sentivo  sempre più mio, anche se era là da sempre, come immobile, dietro la mia siepe di osmanto, altissima. Come se non mi appartenesse più. Lo fissavo. E se il tempo non conta, l'intensità con cui vivi un momento può essere tutto. Ed io ci ero dentro fino al collo in quel momento. Stretto fino all'ultimo bottone.
Non ci camminavo sopra da anni. Da quando, con i miei bambini, si raccoglievano il tarassaco e i panevin nei cestini di vimini e foglie di pannocchia rinsecchita, ed ora che non vivono più con me, la nostalgia mi scavava dentro un piccolo buco. Il mio vicino lo coltivava ma ora tutto è ancora fermo. Anche il trattore sembra in attesa che passi la pandemia. Le erbacce sono alte, le sue ruote incastrate in vecchie gombine di insalata. 
Con amorevoli cure, io e il mio vicino condividiamo la stessa passione per un lavoro che si somiglia, pensavo tra me e me. "Se vuoi guarire la natura devi prendertene cura, amare ogni gesto che fai verso di lei. Anche se pianti patate". Mi diceva osservandomi dal terrazzo di casa sua, mentre mi scattavo la foto con il cellulare davanti al suo trattorone. Anche a lui la nostalgia del rombante motore gli scavava un buco dentro. "Finirà?", mi chiedeva triste. 
"Non lo so", rispondevo turbinosa. "Forse si".
Ma quando?
Non lo avevo dimenticato il prendersi cura di qualcosa. Noi in ospedale lo facciamo con le persone,  ci viene facile. Ma non  avevo più considerato che la campagna è veramente l'unica capace di dare un futuro a tutta la saggezza del nostro passato. Non dovrà essere la nostra condanna il non averlo ricordato. Che io vorrei davvero piantare le mie radici dentro quel campo. Racchiude sicuramente quella cosa esplosiva che si chiama felicità.



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