Babatunde nella campagna veneta

Si chiamava Babatunde.
E' quello che vi ho evidenziato nella foto, in fondo, piccolo come un puntino. 
Il nome glielo ho chiesto dall'abitacolo della mia automobile, quando è arrivato appresso a me dopo la "folla" di pecore marchiate di verde, rosa e blu. Si era chinato con garbo verso il mio finestrino con la faccia increspata, pestando le milioni di caccherelle a pallina schiacciate sull'asfalto. Non si aspettava che qualcuno gli rivolgesse una parola. A dire il vero, così tante pecore non le avevo mai viste nemmeno io tutte insieme e un bagno tra loro è stato davvero esilarante. Non solo perchè riuscivano a far oscillare più di duemila chilogrammi di automobile, ma per la compostezza e la compiuta ferma decisione nel seguire le indicazioni del loro padrone che da lontano, con fischi e vocalizzi, raggiungeva l'udito anche delle più veloci. Tuttavia i tonfi delle loro schiene li sentivo bene sulla portiera. E anche di quella capra bernoccoluta che odorava di erba appena tagliata. Del resto non potevano mica calpestare i campi arati laterali alla strada. Loro le regole le sapevano rispettare. 
Altissimo, e nero. Babatunda era così nero che gli occhi bianchi risaltavano da lontano come due fari.
Era un ventiquattrenne senegalese il pastore, e si vedeva che amava il suo lavoro da come reggeva la pecora madre per consentire all'agnello di succhiare il latte dalle mammelle. Che tenerezza. Dovevate vedere come la fermava a mano aperta sulla schiena, quasi accarezzandola. La teneva ferma lì, per qualche minuto, finchè il piccolino panzuto e soddisfatto proseguiva con il gregge belando per farsi strada tra i grossi.
Babatunde, il cui nome mi si è attaccato completamente, è un'ancora di salvezza per la pastorizia. Lui non ha paura di sporcarsi le mani. E nemmeno la faccia. 
Ed io, già mi immaginavo con il maglione di pura lana sul mio divano bianco, più tardi. Quel maglione infeltrito che non ho mai apprezzato assumeva un valore preziosamente alto. E quella ricotta di pecora ancora insacchettata nel mio frigorifero e ricoperta da un leggero strato verdastro, avrei dovuto mangiarla prima accidenti. 
Ce ne fossero di Babatunde nelle ultime generazioni di figli.
Ce ne fossero di Babatunde nelle nostre generazioni di genitori.
Sono riuscita a chiedergli se gli piaceva il suo lavoro. "Io non posso senza", mi ha risposto in un italiano biascicato ma comprensibile, appena appena strisciato da un sottile accento francese. "Qui si respira el potente oxigen de la libertè".
Non ho capito se parlasse del lavoro in questa aperta campagna o dell'Italia in generale, ma una cosa era certa, lui,  il pastore nero, di governare un gregge di pecore, era sicuramente bravissimo. 

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